Un museo di propaganda, un museo chiuso e occultato, un museo da rimeditare e riaprire: dal Museo coloniale al Museo italo africano “Ilaria Alpi”

Gaia Delpino – Museo delle Civiltà

Oltre Montanelli

I monumenti sono strumenti di elaborazione di una memoria collettiva per mezzo dei quali viene tramandato e onorato il ricordo di eventi e persone, additandone l’esemplarità. Frutto di una selezione politica, ai monumenti proposti come modelli di positività corrisponde, quasi rovescio di una medaglia, l’abbandono all’oblio di altri fatti e personaggi, talora con un deliberato intento occultatore.[1] Proprio perché rappresentanti di un passato selezionato, frutto di scelte politiche, i monumenti possono divenire bersaglio di campagne di revisione della narrazione storica di eventi più o meno prossimi o remoti acquisendo sulla scena pubblica nuove identità e funzioni, quasi una nuova vita.[2] Qualcosa del genere è avvenuta di recente in Italia sulla scia delle riflessioni su questioni razziali, colonialismo e memoria del colonialismo suscitate dalle azioni compiute dal movimento Black Lives Matter negli Stati Uniti, e di lì propagatesi in tutto il mondo, in seguito alla morte a Minneapolis, per mano della polizia, dell’africano americano George Floyd. Il 14 giugno 2020 a Milano la statua di Indro Montanelli, posta nei giardini pubblici di via Palestro, è stata imbrattata con vernice rossa e sulla sua base sono state tracciate le scritte “razzista” e “stupratore”. Con questo gesto, rivendicato dal Laboratorio universitario metropolitano e rete studenti Milano, si è inteso indurre la comunità milanese e l’intero paese alla necessità di una revisione critica della nostra storia recente e del nostro passato colonialista contestando che un personaggio come Montanelli – come tanti italiani partecipe attivamente, volontariamente e senza pentimenti all’esperienza coloniale in Etiopia – possa essere oggetto di pubblica celebrazione.[3]

Anche i musei, come le statue, sono strumenti di cui gli apparati statali si servono per narrare e tramandare il passato. Luoghi deputati alla conservazione delle memorie, i musei mettono in atto istituzionalmente narrazioni che variano nel corso del tempo, non solo a seconda dello stato delle ricerche ma anche del mutare delle temperie culturali, delle prospettive ideologiche e degli interessi del momento. Sorte in gran parte nella seconda metà del XIX secolo, con declinazioni diverse a seconda delle varie origini e della provenienza delle collezioni, le istituzioni museali furono concepite sia come luoghi di conservazione di materiali offerti allo studio di specialisti, sia come centri educativi per intrattenere e formare il pubblico. I musei etnografici erano il luogo di ricerca e di rappresentazione dei popoli extraeuropei, oggetto di passata e futura colonizzazione. La narrazione museografica fu inizialmente e a lungo ispirata da una prospettiva evoluzionista e al tempo stesso dalla celebrazione delle missioni geografiche e militari attuate dalle varie nazioni. I musei etnografici, come prima di loro le fiere internazionali e le esibizioni nei cosiddetti zoo umani,[4] raccontavano l’Altro “scoperto”, esibito, documentato, oggetto di colonizzazione delle nazioni europee. Nel caso italiano abbiamo tuttavia una particolarità: un Museo coloniale, ora Museo italo africano “Ilaria Alpi”,[5] distinto per finalità, prospettive, provenienza e registrazione delle opere dai musei etnografici del nostro paese quali, tra i maggiori, il Museo preistorico etnografico di Roma, poi intitolato a Luigi Pigorini, e il Museo di antropologia ed etnologia di Firenze.

 

Timbro Ministero delle Colonie – Ufficio Cartografico, Italia. Inventario del 1987 n. 6148. ©_Museo delle Civiltà – MIA “Ilaria Alpi”.

 

L’ex Museo coloniale di Roma

Istituito nel 1914 con il deposito, nel Palazzo delle Esposizioni di Roma, dei materiali provenienti dalla sezione coloniale dell’Esposizione internazionale di marina e igiene marinara – Mostra coloniale italiana di Genova, il Museo coloniale venne inaugurato a Roma nel 1923 da Mussolini nella sede del Palazzo della Consulta in cui rimase per dodici anni prima di essere spostato a via Aldrovandi con il nome di Museo dell’Africa italiana. Tra il 1935 e il 1940 venivano destinati al museo la stragrande maggioranza degli oggetti provenienti dalle colonie italiane, oggetti che venivano poi ridistribuiti a realtà museali di tutto il paese. L’esposizione del 1935, disposta in trentasei sale, era articolata in varie sezioni: etnografica, militare, storica, economica-merceologica, artistica. Durante la Seconda Guerra Mondiale il museo fu chiuso, riaprì nel 1947 rimanendo accessibile e attivo fino agli anni Settanta del Novecento. Alla riapertura post-bellica si associarono nuovi scopi istituzionali: dalla salvaguardia degli interessi relativi alla presenza italiana in Africa alla promozione di attività di ricerca.[6] A partire da allora ebbe inizio una fase di oblio e smembramento: le collezioni connesse con l’attività bellica furono destinate a vari musei militari, l’esposizione fu estremamente ridotta, la maggior parte dei beni finì nei depositi di via Aldrovandi, dal 1995 sede dell’Istituto Italiano per l’Africa e l’Oriente. Nel 2001 le collezioni sono state spostate al Museo nazionale d’arte orientale “Giuseppe Tucci” e tra il 2010 e il 2019 al Museo nazionale preistorico etnografico “Luigi Pigorini”, nella zona dell’EUR, in cui si sta ultimando il riscontro inventariale e il recupero conservativo.[7] Con questo ultimo trasferimento l’ex Museo coloniale è approdato nel quartiere romano dell’EUR, progettato per l’Esposizione Universale di Roma prevista per il 1942, in un edificio tipico dell’architettura razionalista del periodo fascista: coincidenza sorprendente e del tutto casuale.[8] Variati nel tempo sono stati anche l’affidamento e la gestione del museo, passati nel 1953 dal Ministero delle Colonie (Ministero dell’Africa Italiana dal 1940) al Ministero degli Affari Esteri e all’Istituto Italiano per l’Africa da esso dipendente. L’ultimo cambiamento è avvenuto nel 2017 con il passaggio al Ministero per i Beni e le Attività Culturali e per il Turismo e l’inserimento, come quinta sezione museale e con la denominazione di Museo italo africano, al Museo delle Civiltà dove, nel 2020, ha assunto l’intitolazione a Ilaria Alpi.

 

Musei da riaprire, musei da decolonizzare

L’ex Museo coloniale è un’istituzione complessa per la sua storia in quanto, tra aperture e chiusure, ha seguito e segue la comparsa e la scomparsa della memoria coloniale nel dibattito pubblico italiano di tutto il Novecento e di oggi. Quando sorse, nel secondo decennio del secolo passato, l’istituzione esprimeva la volontà governativa di esporre e celebrare le conquiste coloniali italiane in Africa e, al tempo stesso, di formare negli italiani, ed esaltare, uno spirito di colonizzatori.[9] Per le memorie odierne dell’esperienza coloniale in Africa l’ex Museo coloniale riveste dunque un’importanza cruciale non solo per la corposa documentazione di oggetti (12.000 circa) riferentisi alla presenza italiana in Tripolitania, Cirenaica, Eritrea, Somalia ed Etiopia, ma anche per la testimonianza delle diverse narrazioni che delle vicende dell’occupazione italiana sono state fatte in passato, con i silenzi sui non pochi riprovevoli episodi accaduti per mano italiana e la rimozione di interi avvenimenti della nostra storia coloniale. È un museo di esaltazioni e di silenzi, un museo atipico per come sono stati trattati gli oggetti raccolti che non hanno un registro di entrata che ne documenti origine, data e provenienza. Tutti questi oggetti tuttavia rivestono, dato il contenitore in cui si trovano, un’importanza sociale collettiva: da un lato raccontano visivamente quanto accaduto nelle colonie italiane e dall’altro, con la loro storia di esposizione prima e di oblio poi, testimoniano la celebrazione e il successivo occultamento del passato coloniale nello spazio culturale pubblico del nostro paese.

Possono i musei, come le statue, avere una nuova funzione sociale? Possono, come le statue, essere contestati? Sì, in quanto anch’essi portatori di narrazioni, celebrazioni e ricostruzioni storiche. Sì, perché contenitori di oggetti che raccontano storie spesso diverse a seconda di chi le presenta, come le stesse memorie che mutano con il variare dei soggetti che le hanno vissute. Alcuni degli oggetti del museo sono inoltre frutto di ruberie e violenze: sono quindi da inserire nell’ambito dell’ampio dibattito sulle restituzioni dei beni culturali, aspetto anch’esso riguardante la decolonizzazione delle istituzioni museali. Il tema delle restituzioni è vasto e complesso: concerne un’ampia serie di questioni come quelle relative alle provenienze delle opere, alle modalità della loro raccolta, alle concezioni che i vari portatori di interesse attribuiscono ai vari oggetti. In Italia i musei non hanno poteri decisionali circa la restituzione o meno di un oggetto in quanto si tratta di proprietà demaniali: la restituzione deve essere dunque una scelta governativa, il museo però può e deve esprimere considerazioni in materia e valutare proprie forme di risposte. Decolonizzare significa in primis decostruire per ricostruire un nuovo e diverso museo che induca nei visitatori interrogativi e riflessioni. Nel caso del Museo italo africano riteniamo che ciò voglia dire allestire un’esposizione che ricostruisca quanto avvenuto nel passato ma racconti al pubblico anche e soprattutto sia i processi che portarono l’Italia a divenire dalla fine dell’Ottocento un paese colonizzatore, sia i discorsi e i linguaggi usati dallo stato per esaltare le imprese di conquista militare, costruire miti celebrativi e fare degli italiani un popolo di colonizzatori. Decolonizzare significa allestire una realtà museale che fornisca spunti di riflessione sulle motivazioni e sulle retoriche usate allora nell’esporre gli oggetti portati in Italia al fine di documentare l’armamentario militare impiegato in Africa, mostrare merci, materiali e i possibili frutti economici derivanti dallo sfruttamento della manodopera africana. Decolonizzare vuol dire illustrare prospettive e retoriche retrostanti le missioni scientifiche promosse nei territori coloniali (archeologiche, naturalistiche, geografiche, etnologiche e antropologiche), ragionare sugli interventi architettonici, urbanistici e infrastrutturali che intendevano rifarsi ed esaltare l’eredità imperiale romana. Per decolonizzare il museo occorre anche svelare le retoriche soggiacenti alla presentazione fatta all’epoca al pubblico italiano dei popoli colonizzati mediante l’esposizione delle loro produzioni materiali e l’esibizione di opere grafiche e d’arte ritraenti ambienti esotici, indigeni e manufatti locali.

 

“L’Italia brandisce la spada dell’Antica Roma”, cartolina postale con disegno di Fortunino Matania per la rivista “The Sphere”, stabilimenti A. Liebman e co., Roma, 1911.

Per compiere questo processo di decostruzione e analisi, per ragionare sul ruolo dello stato nella costruzione della memoria coloniale nazionale, per porre interrogativi anche sugli immaginari e sulle relazioni che oggi legano le nazioni africane ex colonie italiane al nostro paese è necessario osservare e narrare gli oggetti da più punti di vista, valendosi anche delle memorie che essi evocano nei soggetti un tempo colonizzati e nei loro discendenti. Per riflettere sui silenzi connessi al colonialismo italiano nel nostro paese e sulla complessità dei ricordi sarà pure importante raccontare le esperienze di vita dei tanti italiani che ebbero parte nell’esperienza coloniale, le storie familiari che continuano a emergere nel nostro paese nel succedersi delle generazioni.[10] Decolonizzare significa inoltre analizzare, mediante sguardi molteplici che cambiano e si arricchiscono nel corso del tempo, la storia delle attività coloniali italiane in Africa e la sua narrazione pubblica. Per realizzare questi scopi l’allestimento del Museo italo africano “Ilaria Alpi” è stato progettato in forma modulabile e modificabile, con l’intento di allestire un’esposizione dinamica, variabile col progredire delle ricerche, delle riflessioni e delle critiche sulle memorie coloniali, ormai da affrontare a livello pubblico nell’ambito di un’istituzione necessariamente da riaprire. Nella convinzione che la vera decolonizzazione di un museo chiuso e taciuto per circa quaranta anni debba avere inizio con la sua accessibilità, il museo già da anni ha reso e rende accessibili a studiosi, artisti, visitatori e giornalisti i materiali al momento custoditi nei suoi depositi.

 

Scudo in fibra policroma con scritto “Viva il re” e bordo rivestito di pelle, Etiopia. Inventario del 1998 n. 334. ©_Museo delle Civiltà – MIA “Ilaria Alpi”.

Conclusioni: aprire e non rimuovere

All’Università di Cape Town il 9 aprile 2015 il movimento Rhodes Must Fall ha rimosso la statua di Cecil Rhodes nell’intento di decolonizzare l’istituzione universitaria e rimuovere la celebrazione di un rappresentante di spicco del colonialismo imperiale britannico. Come ha spiegato Achille Mbembe[11] il gesto non ha voluto cancellare il passato ma demitologizzarlo. Il fine di questa azione così come di quanto fatto nel giugno scorso alla statua di Montanelli (e in tutto il mondo ad altri monumenti imbrattati o rimossi sull’onda delle istanze del movimento Black Lives Matter) non è la cancellazione del passato, piuttosto la rimozione degli intenti celebrativi voluti da precise scelte politiche. Diverso è il processo che al Museo italo africano si è deciso di promuovere per esaminare e illustrare il passato coloniale italiano e le sue mitologizzazioni: le celebrazioni e le amnesie del discorso coloniale verranno esibite per essere discusse, decostruite e rinarrate. Una semplice rimozione potrebbe portare infatti a un nuovo oblio, a eludere un confronto pubblico con il passato coloniale, a non renderlo memoria sociale duratura. È quanto accaduto, a ben riflettere, con la stele di Axum a piazza di Porta Capena a Roma: restituita all’Etiopia tra il 2005 e il 2008, non è stata lasciata alcuna traccia al suo posto che ricordi e testimoni nel paesaggio urbano romano quella storia di sottrazione coloniale.[12]

 

Autore non identificato, copertina de “La Rivisita illustrata del Popolo d’Italia”, a. XII, n.4, aprile 1934. Da Manfren P., “Archeologia e simboli della “Romanitas” nella pubblicistica e nella grafica fascista: Il caso della rivista illustrata il Popolo d’Italia (1923-1943), TECLA-Rivista-Temi di Critica e Letteratura Artistica, numero 10, 2014, pp.24-61.

Il colonialismo italiano è ormai da molti decenni oggetto di studio sotto molteplici aspetti da parte di ricercatori e studiosi, di questo passato manca tuttavia una rappresentazione rivolta ad un pubblico più ampio di quello accademico, una rappresentazione capace di coinvolgere l’intera società, a partire dalle giovani generazioni, e che incida sulla coscienza pubblica nazionale per indurre anche a riflessioni sulle relazioni odierne con l’Africa. È in questa prospettiva che il Museo italo africano è stato intitolato ad Ilaria Alpi, la giornalista che è stata uccisa proprio perché indagava su torbidi rapporti contemporanei tra l’Italia e la Somalia.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Gaia Delpino (PhD) è funzionario demoetnoantropologo al Museo delle Civiltà in cui è curatrice della sezione Africa del Museo preistorico etnografico “Luigi Pigorini” e, con Rosa Anna Di Lella, del Museo italo africano “Ilaria Alpi”.

 

Note

[1] Nora P., “Between memory and history: ‘Les lieux de memoire’”, Representations, Vol. 26, 1989, pp. 7-25.

[2] Si veda l’intervento di Ivan Bargna per ASAI sulle questioni sollevate dal Black Lives Matter: “Anche le statue vivono e per questo possono morire”.

[3] La statua di Indro Montanelli era stata già oggetto di contestazione il 9 marzo 2019 da parte del movimento Non una di meno che aveva ricordato come il giornalista avesse acquistato in Etiopia una “moglie” dodicenne: imbrattando di rosa il monumento di Montanelli il movimento femminista aveva voluto ricordare le vittime della presenza coloniale italiana in tutta l’Africa e richiamare la necessita di fare i conti con il nostro passato coloniale.

[4] Cfr. inter alia AA.VV., Zoo umani. Dalla Venere ottenotta ai reality show, Verona, Ombre Corte, 2003. Abbatista G., Umanità in mostra. Esposizioni etniche e invenzioni esotiche in Italia (1880-1940), Trieste, EUT, 2013.

[5] Il Museo italo africano “Ilaria Alpi”, in fase di progettazione, è la quinta realtà museale a comporre il Museo delle Civiltà, istituito al Ministero per i Beni e le Attività Culturali e per il Turismo nel 2016 a Roma con l’unione in un unico polo dei Musei preistorico etnografico “Luigi Pigorini”, arte orientale “Giuseppe Tucci”, arti e tradizioni popolari “Lamberto Loria” e alto medioevo “Alessandra Vaccaro”.

[6] Cardelli Antinori A. Museo Africano: ipotesi per un museo storico coloniale in Margozzi M.S. (a cura di), Viaggio in Africa. Dipinti e sculture delle collezioni del Museo Africano, Catalogo della mostra tenutasi presso l’IsIAO aprile-giugno 1999, Roma, IsIAO, 1999. Per una storia del Museo coloniale cfr. Gandolfo F., Il Museo coloniale di Roma (1904-1971): tra le zebre nel paese dell’olio di ricino, Roma, Gangemi, 2014.

[7] Dal 2017 Gaia Delpino e Rosa Anna Di Lella, demoetnoantropologhe al Museo delle Civiltà, insieme allo staff del museo continuano l’opera di riscontro inventariale avviata nel 2010 al momento del trasferimento delle collezioni dal Museo dell’arte orientale “Giuseppe Tucci” al Museo preistorico etnografico “Luigi Pigorini”. Nel maggio 2020 e stata presentata una primissima riflessione sul progetto allestitivo dell’italo africano, visibile sul canale Youtube del museo. Per un approfondimento sul progetto si rimanda all’intervista, a cura di Viviana Gravano e Giulia Grechi, a Rosa Anna Di Lella “Mostrare una collezione coloniale: riflessioni sul futuro allestimento al Museo delle Civiltà di Roma” comparsa su Root- Routes, 33, luglio 2020 (https://www.roots-routes.org/mostrare-una-collezione-coloniale-riflessioni-sul-futuro-riallestimento-al-museo-delle-civilta-di-roma-intervista-a-rosa-anna-di-lella-a-cura-di-viviana-gravano-e-giulia-grechi/).

[8] Una sezione del nuovo Museo italo africano rifletterà tra l’altro proprio sull’architettura coloniale italiana e sulla celebrazione fattane in riferimento alla “missione civilizzatrice” dell’Italia in quanto “erede” di Roma e del suo impero.

[9] Tomasella G., Esporre l’Italia coloniale. Interpretazioni dell’alterità, Padova, Il Poligrafo, 2017.

[10] Moltissimi sono gli oggetti di affezione, fotografie, diari, cartoline e manufatti vari donati al museo insieme a oggetti africani portati dai nonni di ritorno dall’Africa. Si tratta di donazioni fatte con intenti diversi: talvolta per mantenere la memoria degli avi, talora per restituire in qualche modo ciò che era stato sottratto in epoca coloniale.

[11] Mbembe A., Decolonizing Knowledge and the Question of Archives, 2015.

[12] Bianchi R., Scego I., Roma negata. Percorsi postcoloniali nella città, Roma, Ediesse, 2014.