Fraternizzazione, Leasing o Matrimonio? Le relazioni sessuali nella colonia Eritrea

Barbara Sorgoni (Università di Torino)

   Grazie alla letteratura storica e antropologica post-coloniale, possiamo descrivere le società bianche in colonia come comunità immaginate che si auto-definiscono e percepiscono come un “noi” a partire da una radicale separazione dall’“altro”: i sudditi coloniali. Potremmo completare la celebre frase “fatta l’Italia, bisogna fare gli italiani” con “contrapponendoli a chi deve apparire e restare altro”. Per ottenere e poi mantenere nel tempo l’opposizione tra cittadini-colonizzatori e sudditi-colonizzati, e compattare al proprio interno la comunità bianca, il dispositivo storicamente utilizzato in qualsiasi dominio coloniale è (stato) il razzismo. Naturalizzando le differenze tra dominatori e dominati, il razzismo coloniale consente di costruire quel necessario e fittizio “senso di comunità” indispensabile per la tenuta del potere bianco in colonia. In modo ancora più capillare e pervasivo, il mantenimento della distinzione e della distanza (“razziale”, politica, giuridica, economica e sociale) tra cittadini e sudditi è reso possibile dal controllo minuzioso delle relazioni sessuali. Le politiche sessuali in colonia sono, tra le altre cose, ciò che consente di tracciare i confini tra colonizzatori e colonizzati: l’imposizione di una specifica morale sessuale e di una condotta appropriata definisce in modo concreto le vite di sudditi e cittadini, costruendo i due gruppi come entità omogenee al proprio interno e distinte tra loro e tracciando la linea, mutevole nel tempo, della separazione. Nella costruzione delle comunità immaginate coloniali, il razzismo implica inevitabilmente il controllo sulla sessualità.

        Nel caso delle colonie italiane in Africa, politiche e rappresentazioni sessuali sono state utilmente viste come metafore dell’espansione territoriale: la “Venere Nera” seducente e disponibile presente in tante rappresentazioni iconografiche e testuali rimanda un’idea di rilassatezza dei costumi sessuali e facilità di possesso del corpo dei sudditi direttamente funzionale al programma politico di conquista e penetrazione territoriale. Ma le politiche coloniali sono sempre contraddittorie e mutevoli, trascinandosi dietro diverse morali sessuali e differenti rappresentazioni. Così, quando il fascismo impone una separazione razziale da regime di apartheid, la nudità dei corpi-sudditi serve a dimostrare una radicale diversità che giustificherebbe il divieto di intimità inter-razziale. Analogamente, la conquista dell’impero dell’Africa Orientale Italiana si raggiunge solo bandendo i rapporti sessuali tra cittadini e suddite: “Signori! AUT IMPERIUM, AUT VOLUPTAS!” tuona il governatore dell’Harar Guglielmo Nasi.

        In un contesto coloniale mutevole, caratterizzato da differenti razzismi e nuove forme di morale sessuale, quali relazioni intime erano praticate tra cittadini e sudditi? Erano forme di leasing, mezzi per “fraternizzare”, veri e propri matrimoni… o altro ancora? I termini non sono casuali: rimandano a due interviste a Indro Montanelli (dove raccontò dapprima di avere avuto in leasing una ragazzina di 12 anni, e successivamente di averla presa in sposa), e all’idea difesa ancora oggi che i rapporti tra italiani e donne native replicassero forme di unione culturalmente accettate in colonia.

        Per rispondere alla domanda occorre ricordare che il rapporto numerico tra maschi e femmine bianchi in colonia era nettamente sbilanciato a favore dei primi. Le colonie erano luoghi per maschi. Caratterizzate da un’organizzazione essenzialmente militare, rituali di potere, il mito della vita dura e selvaggia, l’assenza di servizi e la retorica della pericolosità dell’ambiente naturale e umano, erano definite no place for a white woman. Non stupisce dunque la composizione demografica in Eritrea dove nel 1904, su 2.333 italiani, sono solo 482 le donne (di cui 189 sotto i 15 anni)[1]. Tale rapporto non ha nulla di naturale ma è piuttosto ottenuto attraverso politiche basate sul “prestigio di razza” che, per diversi motivi, limitano l’ingresso in colonia alle donne bianche. Dal 1885 e fino agli anni ’30 del Novecento – dunque per quasi tutta la durata della presenza italiana in Africa – in Eritrea si recano essenzialmente maschi, spesso giovani e sempre soli, anche se non necessariamente nubili. E per tutta la durata del colonialismo italiano, i matrimoni misti sono di fatto inesistenti perché persuasivamente “scoraggiati” o espressamente vietati.

        Nei periodi di violenza militare più cruda – durante la conquista dell’Eritrea (1885-1896) e l’aggressione all’Etiopia (1935-36) – si registrano moltissimi casi di violenza e stupro da parte di italiani nei confronti di donne, ragazze, bambine e bambini nativi. Episodi noti nell’ambiente coloniale, in cui l’interpretazione di comodo della “tradizione” locale consente, in caso di processo, di assolvere o concedere attenuanti agli imputati. Così nel 1892, il tribunale concede all’italiano accusato dello stupro di una bambina di nove anni – sequestrata e legata nella propria abitazione per giorni – diverse attenuanti invocando una presunta libertà dei costumi sessuali locali. A volte gli stupri sono persino celebrati nelle memorie degli stessi autori: il famoso esploratore Gustavo Bianchi – in Etiopia nel 1886 – racconta fiero come abbia guarito una giovane sposa “ancora fanciulla”:

La moglie di un servo, praticissima nelle mie abitudini, fu subito incaricata di prepararla alla medicina, con un bagno, necessario sempre, sempre igienico. Io preparai un unguento che doveva parer tale – che non era altro che un poco di burro fresco. Quella fu la prima medicina per la bella galla, e sia pur detto francamente, fu medicina ottima anche per me. La fanciulla giaceva sopra una pelle di leopardo […] aveva paura; tratteneva persino il tremito che si impadroniva di lei. Mi fece compassione. L’accarezzai. Delicatamente, poco a poco, con l’unguento preparato, l’unsi. Le si gonfiò il petto. Gli occhi si socchiusero […] Allora tutta quanta la medicina poté essere somministrata, e due ore dopo […] apersi la tenda.

        Nei periodi di “pacificazione” del dominio coloniale gli stupri non cessano, ma si affermano con maggiore frequenza relazioni di concubinaggio tra italiani ed eritree, soprattutto tigrine dell’altopiano al di qua e al di là del confine tra Eritrea ed Etiopia. Secondo l’etiopista Conti Rossini, che soggiornò a lungo in colonia, queste popolazioni adottavano due principali forme di unione. Il qal-kidan, o “patto matrimoniale” formale, era contratto fra due “stirpi” (lignaggi) e prevedeva complessi scambi di obbligazioni e doni da parte delle famiglie di entrambi i coniugi. I beni erano proprietà comune degli sposi e venivano divisi a metà in caso di divorzio. Questo era facilmente ottenibile, poteva avvenire per volere di uno dei coniugi indistintamente e non comportava alcuno stigma sociale: la donna era libera di risposarsi e il mantenimento dei figli era condiviso dai genitori anche se nati dopo la separazione.

        Il demoz era invece un contratto tra due individui che s’impegnavano a convivere coniugalmente per un tempo prestabilito: la donna offriva servizi domestici, di cura e sessuali, mentre l’uomo le corrispondeva un compenso concordato e provvedeva al mantenimento di entrambi. I beni restavano separati, il contratto poteva esser rescisso da entrambi in qualsiasi momento ma la donna percepiva comunque il compenso previsto. In entrambi i casi era previsto l’istituto della “ricerca della paternità”: una donna incinta poteva indicare sotto giuramento chi fosse il padre e questi era costretto a legittimare e mantenere la prole, anche a relazione terminata e anche in caso di stupro.

Ritratto di una relazione di madamato nel primo periodo coloniale, Eritrea

Tra le due forme di relazione formale, è il demoz in quanto unione a termine a colpire gli italiani: questo viene da subito assimilato al concubinaggio praticato in Italia e rinominato in colonia madamato. Equiparando il madamato al demoz, gli italiani potevano giustificare relazioni temporanee con donne native sulla base del fatto che il “concubinaggio” esisteva già in Eritrea e le donne erano dunque ben liete di stabilire tali relazioni. Naturalmente, questo ragionamento può valere solo nella misura in cui il concubinaggio all’italiana ricalcasse in tutto il demoz. Ma così non era. Il demoz in Eritrea era a tutti gli effetti un’unione legittima e comportava, per l’uomo, doveri precisi nei confronti della donna e l’obbligo di riconoscimento e mantenimento dei figli; per la donna, diritti chiari e massima tutela economica; per la prole, lo status di figli legittimi e il diritto di appartenenza al lignaggio paterno. Al contrario, le madame degli italiani non erano considerate mogli legittime dai cittadini, ma appunto concubine senza alcuna tutela (come avveniva in patria). I nazionali potevano abbandonare le proprie compagne per qualsiasi motivo senza essere obbligati a rispettare la durata del contratto o il pagamento del compenso pattuito, né a riconoscere i propri figli o a provvedere al loro mantenimento. Questo comportamento era talmente frequente e noto in colonia che Ferdinando Martini, primo governatore civile dell’Eritrea (1897-1907), scriverà nelle sue memorie: “il bianco può ingannare e l’indigena essere dunque ingannata”.

        In sintesi, tornando alla domanda iniziale, il madamato come tipo più diffuso di relazione tra cittadini e suddite non è una forma di matrimonio; né replica usanze locali – semmai contribuendo a trasformarle in relazioni svantaggiose per donne e bambini, oltre che socialmente e moralmente stigmatizzate; né infine è mai apertamente incoraggiato come mezzo di fraternizzazione poiché è, al contrario, tollerato solo se vissuto in modo discreto o nascosto.

        Le cose cambiano ancora nel periodo del fascismo imperiale (per inciso, il periodo in cui Montanelli si trova in colonia), non solo perché durante l’aggressione all’Etiopia violenze e stupri sono di fatto condonati, ma soprattutto perché nuove disposizioni vietano espressamente anche il madamato, pena la reclusione fino a 5 anni. È in questa ultima fase che le donne italiane vengono

Madri e figli di tutte le razze, «La difesa della Razza» I n. 3, ottobre 1938.

incoraggiate a recarsi in colonia con il compito preciso di moralizzare i costumi attraverso il matrimonio e la procreazione unicamente tra soggetti della “razza bianca”. Il Manuale dell’Istituto Fascista dell’Africa Italiana del 1941, inoltre, assegna loro il compito di competere con le donne suddite in “sottomissione e dedizione” al proprio marito, al fine di vincerne la pericolosa concorrenza. Contestualmente, le donne native potranno entrare in contatto con i cittadini unicamente attraverso l’istituto della prostituzione ora controllata direttamente dal governo, sottratta alla gestione delle donne stesse e posta sotto quella capillare di polizia e medici coloniali. Le prostitute locali sono marcate attraverso bandierine di diversi colori che identificano abitazioni e corpi contemporaneamente, separando quelle destinate ai soli ufficiali da quelle per i soldati semplici (bianchi) e quelle per i nativi. La pratica della schedatura e quella ancora più umiliante dei controlli medici forzati stravolge la forma tradizionale di scambio sessuale, circondando ora le donne di un disprezzo sociale prima sconosciuto.

 

        Nel periodo imperiale, la sequenza di norme che si succedono ogni anno dal 1936 al 1940 mira a bandire qualsiasi forma di contatto tra cittadini e sudditi e qualsiasi tipo di intimità: non impedisce i rapporti sessuali inter-razziali tout-court ma li prevede unicamente dentro la cornice razzista della supremazia bianca, anche violenta. Se, come spiegano i commentatori del tempo, l’obiettivo ultimo di tali leggi è che in colonia non nascano più figli di coppie miste, evitando così di concedere la cittadinanza italiana a soggetti dalla pelle scura (impedendo infine anche l’adozione di bambini orfani da parte di coppie italiane) – e se, come detto all’inizio, riconosciamo che la nazione italiana si forma a partire dalla costruzione di un’opposizione fittizia e insuperabile dei cittadini/bianchi ai sudditi/neri – possiamo finalmente cogliere le radici di quell’istituto che ancora oggi, vergognosamente, caratterizza il diritto italiano: lo ius sanguinis.

Note

[1] La sex ratio nel 1931 è più bilanciata, con 2.471 uomini e 1.717 donne, ma con l’aggressione all’Etiopia arrivano in colonia 67.000 individui principalmente maschi. Per quanto riguarda le popolazioni native, il censimento del 1931 aveva contato circa 596.000 individui, quasi la metà (274.419) donne.

Per saperne di più:

 Barrera G., 2002, “Patrilinearità, razza e identità. L’educazione degli Italo-Eritrei durante il colonialismo italiano (1885-1934)”, Quaderni Storici 109 (1): 21-53.

Bianchi, G. (1886), Alla terra dei Galla. Narrazione della spedizione Bianchi in Africa, Treves, Milano.

Deplano V., 2017, La madrepatria è una terra straniera. Libici, eritrei e somali nell’Italia del dopoguerra (1945-1960), Le Monnier, Firenze.

Pankhurst R., 1974, “The history of prostitution in Ethiopia”, Journal of Ethiopian Studies, XII (2): 159-78.

Sorgoni B., 1998, Parole e corpi. Antropologia, discorso giuridico e politiche sessuali inter-razziali nella colonia Eritrea, Liguori, Napoli

Stefani G., 2007, Colonia per maschi. Italiani in Africa Orientale: una storia di genere, Ombre Corte, Verona

Stoler A.L., 1989, “Making empire respectable: the politics of race and sexual morality in twentieth-century colonial cultures”, American Ethnologist, 16 (4): 634-60.

Surdich, F., 1982, Lesplorazione italiana dellAfrica, Il Saggiatore, Milano.

Tabet P., 1986, “Dal dono alla tariffa: le relazioni sessuali implicanti compenso”, Nuova DWF, 1: 101-30.