Black Lives Matter e la vita sociale dei monumenti

Ivan Bargna (Università degli studi Milano Bicocca)

 

Anche le statue vivono e, per questo, possono morire

In queste pagine il mio intento sarà quello di riflettere sugli attacchi portati ai monumenti dal movimento Black Lives Matter, leggendoli sullo sfondo della più ampia questione della “guerra delle immagini”[1], che si tratti della disputa sulle icone bizantine, della conquista dell’America, dello “scramble for Africa”, della soft diplomacy messa in campo dal cinema hollywoodiano o delle strategie mediatiche dell’ISIS. Non è questione di dettaglio: se le immagini sono arma e posta in gioco di lotte politiche e sociali, è perché sono presenze che esercitano un potere e hanno una loro agentività[2].

Questo può dirsi in particolare per le statue, che sono immagini dotate di corpi e che per questo, con più facilità, sono percepite come quasi-persone, come “oggetti-persona”[3]. Da questo punto di vista, una statua di George Washington e un “feticcio chiodato” (nkisi) del Congo, anche se molto diversi fra loro, funzionano entrambi come “tecnologie dell’incanto”[4]: figure antropomorfe che non si limitano a dare una rappresentazione sostitutiva di un assente, ma che costruiscono e manifestano una presenza che provoca una reazione e sollecita una presa di posizione: in questo modo fungono da perno per reti di relazioni che uniscono e dividono.

Non sono solo oggetti che guardiamo, ma figure che ci guardano, ciascuna animata dalle memorie, intenzioni, pensieri ed emozioni di chi vi ha a che fare. Proprio perché “vive”, in quanto imbricate in contesti di vita, sono generate, deperiscono e muoiono, talvolta di morte violenta: possono essere rapite, sfregiate, ferite, decapitate, smembrate, uccise. Che è quel che può accadere anche alle persone. Distruzione o mutilazione sono parte integrante della vita di statue e immagini, proprio perché la loro materialità, come quella delle persone, comporta una certa fragilità. E proprio per questo siamo affascinati da quanto, talvolta, possano durare nel tempo.

Le immagini della statua del mercante di schiavi Edward Colston che a Bristol, ai primi di giugno del 2020, è stata buttata giù dal suo piedistallo, trascinata per strada dai manifestanti e poi buttata nelle acque del porto, non mostrano un atto vandalico contro un’opera d’arte, ma il linciaggio in effigie di Edward Colston, la messa a morte simbolica del suo corpo sociale espanso, cioè del sistema sociale della tratta degli schiavi con cui lui aveva fatto fortuna. Un gesto forte, ma certamente non nuovo, che riporta alla mente quelle immagini, a tutti note, che accompagnano la caduta dei regimi. Non è un caso: le immagini sono soggette a una doppia referenzialità, a una sorta di “diplopia”[5]: da un lato rimandano alla realtà di cui sono l’immagine e dall’altro ad altre immagini, con cui stabiliscono un rapporto di associazione e ibridazione, fatto di déjà-vu e anacronismi che assemblano temporalità differenti: un archivio collettivo da cui attingiamo per dar forma alle nostre azioni sulla scena pubblica.

Occorre però fare un passo in più: gli attivisti del movimento #BLM non hanno colpito solo delle statue, ma dei monumenti, delle statue poste su un piedistallo e collocate nello spazio pubblico: statue che ricordano.

Se tutte le società danno forma materiale a certe memorie cancellandone altre[6], qui abbiamo però a che fare con una creazione culturale specifica, una tradizione euro-americana che poi, attraverso il colonialismo, è stata esportata in tutto il mondo. Anche se i modelli vengono dall’antichità classica (come ad esempio la figura equestre del condottiero), a farne la specificità sono l’idea di nazione e lo spazio urbano che si affermano nel XIX secolo, periodo durante il quale si diffonde una vera e propria “statuamania”[7]. Lo sviluppo urbano che ha moltiplicato piazze, viali, prospettive e passeggiate per poi arredarle, ha fatto dei monumenti una parte integrante di quel “decoro urbano” che, combinando estetica e morale, definisce la responsabilità civile del cittadino nei confronti della “collettività”, cioè dell’ordinamento vigente. Nell’Ancien Regime le statue individuali nei luoghi pubblici erano rare e destinate a re e santi; le statue dedicate a persone di ranghi inferiori, stavano in luoghi chiusi e privati o sui sepolcri; si trattava di cappelle e statue cimiteriali erette a scopo devozionale, monumenti-tomba. Quelli che stanno invece nelle nostre piazze sono monumenti-segnale eretti nello spazio pubblico a scopo di propaganda: celebrano personaggi non investiti di sacralità religiosa, ma persone ordinarie che vengono elevate a modello[8].

Anche se questa si può dire una storia che è finita con i monumenti ai caduti della prima guerra mondiale (a quelli della seconda e della resistenza verranno dedicate molte meno statue monumentali) e con la crisi della scultura realista innescata da Rodin, questi monumenti sono ancora lì ad abitare il nostro presente.

#BLM: attacco ai monumenti e patrimonializzazione della cultura

Il monumento non si limita a rappresentare l’ordine esistente e a sancirne la legittimità, ma contribuisce a renderlo effettivo, perché richiede una risposta: non solo un’accettazione, ma una presa in carico che si esprime, non tanto e non solo con un gesto volontario (quello ad esempio delle celebrazioni rituali) ma con un processo di “naturalizzazione” che lo rende parte costitutiva dell’ordine delle cose. Le statue danno così forma a corpi che non sono solo individuali ma collettivi, a corpi espansi, come ad esempio quelli delle raffigurazioni ottocentesche della “madre patria”.

Quella dei monumenti è tuttavia un’esistenza paradossale che ricorda quella dei morti viventi: costruiti per ricordare, autorizzano a dimenticare, diventando invisibili anche se esposti in piena luce. Memoria delegata alla materialità del marmo, della pietra e del bronzo che ci esenta dal ricordare. E tuttavia quella dell’invisibilità non è una proprietà delle cose, quanto una qualità della relazione: si è invisibili solo allo sguardo di qualcuno e sempre sotto un certo profilo. Se allora i monumenti possono diventare invisibili non è semplicemente perché sfuggono di vista, ma è perché, proprio nel marcare lo spazio pubblico, diventano parte integrante di un paesaggio normalizzato, come se fossero lì da sempre e per sempre: il fatto che perdano la loro salienza percettiva insomma, è la prova del loro successo, del potere consolidato di una cultura maggioritaria rispetto ad altre minoritarie (in termini di potere), per le quali invece questi monumenti continuano a essere dolorosamente visibili e tanto più dolorosi quanto invisibili agli altri: se il “bianco” agli occhi dei bianchi non è un colore ma lo è invece il “nero”[9], questo è perché il primo si associa a un gruppo dominante per il quale non fa problema, diventando così “invisibile”, mentre per i neri, sotto lo sguardo dei bianchi, esso diviene il marcatore di una condizione di discriminazione cui si è costantemente rinviati nella quotidianità delle proprie vite. La violenza in questi casi si fa strutturale e sistemica, sedimentata in procedure e apparati e, come nel caso dei monumenti, nella materialità delle nostre città.

L’attacco ai monumenti portato da #BLM e le reazioni difensive che ha suscitato lo hanno mostrato con chiarezza: se negli USA la questione dei monumenti confederati non è cosa di oggi, ma tema già presente da almeno un ventennio, la morte di George Floyd a Minneapolis è stato l’elemento scatenante che le ha dato visibilità mondiale e respiro internazionale, riconnettendola ad altri movimenti analoghi sorti altrove, in particolare in Belgio e Gran Bretagna. La differenza rispetto al passato sta nel fatto che se prima si chiedeva una contestualizzazione storica dei monumenti, in modo da farne risaltare l’anacronismo, dopo i fatti di Charlottesville del 2017 (in cui un dimostrante anti-razzista era stato investito e ucciso da un suprematista bianco, nel contesto delle proteste dell’estrema destra contro la rimozione della statua del generale sudista Robert E. Lee), la richiesta di rimozione dei monumenti contestati ora è diventata un punto fermo. Se questo avviene non è tanto perché si vuol cancellare il passato con un colpo di spugna, negando la storia, ma perché si coglie sempre più chiaramente come i monumenti funzionino come dispositivi politici che, attraverso una reinvenzione ideologicamente orientata del passato, consolidano il presente, preconizzando il futuro: i monumenti non insegnano la storia, ma propugnano dei valori.

Possiamo averne conferma constatando come, ad esempio, la maggior parte dei monumenti che negli USA celebrano l’esercito sudista non siano stati eretti nel periodo immediatamente successivo alla fine della guerra civile americana (1861-1865), ma molto dopo, fra 1890 e 1930, negli anni in cui nel sud degli Stati Uniti venivano promulgate le cosiddette leggi Jim Crow (dal nomignolo con cui venivano chiamati i neri, rifacendosi al modello caricaturale dei minstrel show): questi monumenti non sono un portato immediato della guerra, ma della successiva restaurazione della segregazione razziale e della limitazione dei diritti conquistati dagli afroamericani negli stati del sud.

È in questo contesto che la figura di un generale sudista proprietario di schiavi può essere ridefinita nei termini di un difensore delle libertà: “The statue was supposed to teach future generations a whitewashed past that covered distasteful facts with fabricated memories.”[10]: la materializzazione tangibile di una narrativa mitopoietica che celebrava le gesta eroiche dei confederati sconfitti e delle prerogative di autodeterminazione degli stati del sud, serviva a legittimare la continuazione della supremazia bianca sui neri, trasformando una guerra per il mantenimento della schiavitù in una resistenza in nome della libertà. Inoltre, in questo modo, “By depicting the antebellum era as idyllic, race problems in the Jim Crow South could be attributed to emancipation.”[11].

Quello che #BLM ha portato all’attenzione dell’opinione pubblica internazionale è uno dei tanti focolai accesi intorno a patrimoni culturali divisivi e contesi: “difficult heritage” in cui un passato “is recognized as meaningful in the present but that is also contested and award for public reconciliation with a positive, self-affirming contemporary identity”[12]. Si tratta di lotte che sono nel contempo locali e transazionali e che si combattono sulla scena globale: che si tratti della memoria della shoah, delle bombe atomiche sul Giappone o del bombardamento di Dresda nella seconda guerra mondiale, dell’archeologia selettiva che in Medio Oriente fa emergere un solo passato distruggendo quelli concorrenti, oppure dei monumenti del periodo dell’apartheid in Sudafrica e più in generale dell’heritage coloniale.

Situazioni molto diverse fra loro in cui però la questione di se e cosa preservare e in che modo, si pone in modi spesso analoghi, perché captata nell’orbita di discorsi e pratiche di patrimonializzazione della cultura che hanno una circolazione globale. Le agenzie internazionali (prima fra tutte l’UNESCO con la World Heritage List) delimitano il terreno su cui poggiano le politiche del riconoscimento, ponendo l’accento sulla preservazione, conservazione e valorizzazione della diversità come principio universale: “a pattern consolidated by European nations-making, identifying a distinctive and preferably long history, and substantiating it through material culture, has become the dominant mode of performing identity-legitimacy”[13] Accade così che le società post-coloniali, impegnate nella costruzione di un counter-heritage che riposizioni l’eredità coloniale, ne riprendano in realtà non i contenuti ma le forme, con una sostanziale continuità di modi di procedere [14].

Questo modo di rapportarsi ai resti materiali (e immateriali) del passato (e del presente) tende ad occultare il fatto che la distruzione dei monumenti non è un accidente che sopraggiunge dall’esterno ma una parte intrinseca della loro dinamica, come del resto testimonia la nascita stessa delle politiche patrimoniali e di tutela, nazionali e internazionali: “The banality of destruction, not a metaphysic of nostalgia, transformed buildings as diverse as mud huts and classical palaces into modern monuments”[15]. Oltrepassando la nozione di patrimonio storico-artistico e facendo leva sulla nozione antropologica di “cultura”, che consente di valorizzare e legare fra loro le cose le più diverse, si creano “collezioni di artefatti” da amministrare attraverso procedure burocratiche ma anche strategie militari, dentro la visione di un mondo in pericolo.

In questo contesto monumenti e patrimoni culturali quanto più sono protetti tanto più diventano bersagli e viceversa: sono le armi di un soft power che si combina con l’uso della forza militare, ma anche forme di potere che richiamano resistenze. La distruzione delle immagini si lega così a una concomitante produzione di immagini della distruzione, come chiaramente mostrato dalla proliferazione di immagini che ha accompagnato la distruzione da parte dei talebani dei Budda di Bamylan nel 2001, l’attacco dell’11 settembre 2011 contro le Twin Towers oppure ancora dai video messi in rete dallo Stato Islamico che riprendevano le distruzioni del patrimonio siriano e iracheno. Come rileva Salvatore Settis, quel che qui conta è lo “spettacolo della distruzione … La loro neo-iconoclastia ha un carattere spiccatamente performativo: il gesto di chi distrugge è più importante dell’opera che viene distrutta”[16]. Tutto questo non ha ovviamente direttamente a che fare con #BLM, ma non gli è neanche completamente estraneo, nella misura in cui la dimensione simbolica dei suoi gesti dimostrativi attinge e si riverbera nel mediascape globale[17].

Quale destino per i monumenti contesi?

Proviamo a riflettere su alcune delle opzioni in gioco. Non che una sia di per sé migliore di un’altra: conservazione, rimozione e distruzione sono possibilità che vanno valutate in situazione. Tutto dipende dal contesto e dagli attori ed è quindi una questione di tattiche, di relazioni che si stabiliscono intorno ai monumenti, dei fini cui mirano le parti, della possibilità o meno di raggiungere un’intesa, un compromesso, una riconciliazione o di trasformare in profondità l’ordine esistente.

Se la preservazione in loco di un monumento divisivo può essere problematica, la sua distruzione non costituisce necessariamente una soluzione: se le accuse di voler cancellare la storia non reggono (perché i monumenti non ricostruiscono storicamente fatti, ma affermano valori) la sua sparizione può contribuire a occultare le responsabilità degli atti che si vuol denunciare o attribuirgli un’importanza maggiore di quella che aveva avuto; viceversa un monumento che nasce come apologetico, lasciato al suo posto, può essere riletto in un’altra chiave e trasformato nell’attestazione involontaria di un misfatto.

Strategie di occultamento sono però anche quelle messe in campo da chi vuol difendere i monumenti schermandosi dietro il loro valore artistico, facendo della contemplazione estetica una sorta di sguardo neutro e al di sopra delle parti; in realtà quando questo è compiutamente possibile è solo perché la parte avversa è stata neutralizzata: è proprio perché non costituisce più un pericolo, che può diventare oggetto di una contemplazione disinteressata.

I monumenti restano e forse vanno tenuti in vita, proprio fino a quando sollevano conflitti irrisolti, debiti non riconosciuti, ferite non sanate: anche quando dormienti (con il sonno di chi può dormire sonni tranquilli), si risvegliano nei momenti in cui diventano oggetto di contestazione ed è proprio lì che diventano più importanti, come catalizzatori che offrono un punto d’ancoraggio materiale e sensoriale allo stare insieme e contro qualcun altro.

Da questo punto di vista il ripulire o restaurare un monumento “vandalizzato” riportandolo allo stato originario, cioè quello conforme alle intenzioni di chi l’aveva voluto e creato, può voler dire mutilarlo, privandolo della sua vita sociale e della sua biografia, cancellando ogni traccia di quel che è successo. Un’altra possibilità è quella di serbare memoria di ciò che avvenuto o con un restauro parziale o rinviando alla vita disseminata del monumento, al suo corpo esteso e distribuito su una molteplicità di supporti e relazioni (ad esempio, su Wikipedia la voce “Monumento a Indro Montanelli”, ne ricostruisce la genesi e le diverse contestazioni che si sono succedute nel tempo, ma in questo caso senza avere il crisma dell’ufficialità, senza avere cioè una connessione forte e riconosciuta con la materialità della scultura collocata nei Giardini milanesi di Porta Venezia). I monumenti hanno una vita che va oltre le intenzioni di chi ne ha voluto la nascita e le biografie delle persone cui sono dedicati: sono le risultanti di diversioni, appropriazioni, ricontestualizzazioni impreviste.

Uno dei punti critici che minacciano l’integrità e coerenza che il monumento pretende è quello della connessione fra la dimensione simbolica e collettiva del monumento e la vita della persona ritratta nella statua. Anche se questa viene assunta come esempio compiuto dei valori che rappresenta, le due non coincidono: il monumento estrae da quella vita il valore che vuol celebrare ed elimina tutto quello che lo può offuscare. Quel che può riemergere da queste vite (debolezze, contraddizioni, comportamenti riprovevoli) può inficiarne la reputazione e minare la credibilità del monumento: è possibile celebrare George Washington come padre fondatore dell’indipendenza americana, pur condannando o tralasciando il fatto che fosse proprietario di schiavi? È legittimo dedicare una statua al Montanelli giornalista, facendone (a torto o a ragione) un esempio di grande giornalismo, minimizzando o anche condannando la violenza nei confronti di una ragazzina eritrea di 12 anni, avvenuta in epoca coloniale con l’alibi del “madamato”?

Ma qui non è solo questione del poter mettere sullo sfondo i “vizi privati” per elogiare le “pubbliche virtù”, ma della priorità pubblicamente conferita a certi valori piuttosto che ad altri: la celebrazione del buon giornalismo può avere la meglio sulla questione della violenza coloniale e della discriminazione razziale e di genere?

E tuttavia, i monumenti trovano forse la loro vitalità proprio in questo sfasamento irriducibile fra il corpo deperibile della persona (con tutte le sue debolezze) e il “corpo mistico” della statua con i valori collettivi (ma pur sempre di parte) che supporta. È in questa fessura che anche si produce la possibilità di un rovesciamento, della statua e dei valori.

La complessa e contradittoria vita di relazione dei monumenti è ben espressa dal Monumento contro il fascismo (Amburgo, 1986) dell’artista Jochen Gerz: un obelisco di 12 metri su cui l’artista invita i cittadini ad aggiungere il proprio nome, facendosi carico in prima persona del dovere della memoria e della vigilanza; il monumento si ritrae progressivamente nel terreno liberando spazio per la scrittura, ma rendendo via via invisibili le scritte, fino a sparire completamente, come è poi avvenuto nel 1993. Quello di Gerz è un meta-monumento, un monumento autoriflessivo che fa emergere la dinamica, normale ma spesso inavvertita, delle memorie consegnate ai monumenti, della loro dialettica di visibilità-invisibilità, ricordo e oblio, ma anche del fatto che siano nodi di tensioni e conflitti (la colonna era stata ricoperta infatti da scritte di ogni genere, pro e contro il fascismo, restituendo l’immagine non retorica di una città divisa).

Una duplicità questa che riguarda non solo i monumenti intenzionali ma anche quelli “involontari” che si costituiscono cioè nella percezione dei posteri[18]: la trasformazione del campo di sterminio di Auschwitz in un luogo della memoria a ricordo delle vittime della shoah, ne fa nel contempo e proprio malgrado anche il luogo di una possibile esaltazione dei persecutori: atrocity heritage e perpetration heritage si affrontano su uno stesso terreno e sotto il rischio costante dell’estetizzazione del dolore e della violenza[19].

Se quella dei monumenti è una vita di relazione, non ci si può limitare a considerare i singoli monumenti separatamente presi: occorre vederli nel loro insieme, guardando al loro numero e alla loro distribuzione nello spazio: soglie quantitative che determinano scarti qualitativi, con comunità e visioni del mondo sottorappresentate o sovrarappresentate e spazi urbani gerarchizzati, con monumenti posti al centro e altri messi ai margini.

Lo spostamento degli equilibri di forza può allora passare da una riduzione di numero, da una ricollocazione, oppure ancora dall’affiancamento di nuovi monumenti a quelli esistenti (come accaduto ad esempio nel Sudafrica post-apartheid[20]). È una questione di diritti, di rappresentazione e rappresentanza, di intrecci fra forme di auto- ed etero-rappresentazione.

I monumenti vanno dunque pensati in situazione, nei rapporti che hanno fra loro, con le persone e con i luoghi in cui stanno. Da questo punto di vista che un monumento contestato stia in una piazza o venga spostato in un museo, ne muta la vita sociale: entrambi sono spazi pubblici ma diversamente connotati e con visibilità, accessibilità e pubblici differenti.

 Il monumento nel museo cessa di adempiere alla sua funzione, per diventare un reperto, testimonianza di qualcosa che è stato, concluso e superato proprio perché museificato. Anche qui però non si tratta di un destino segnato, univoco e uniforme. Il museo storico di Spandau ad esempio, aperto nel 2016, che ripercorre la storia della città di Berlino attraverso i suoi monumenti abbattuti, da quelli prussiani, a quelli nazisti e della DDR, può sembrare il posto in cui i monumenti, ritiratisi dalla vita pubblica, vanno a morire; ma è anche il luogo in cui continuano a essere mostrati, in uno spazio protetto, a partire dal fil rouge della loro impresentabilità. Sono esposti nelle condizioni in cui arrivano al museo, con tutti i danneggiamenti cha hanno subito al momento della loro caduta e i visitatori sono incoraggiati a toccarli, infrangendo la distanza sacrale che potrebbero riacquisire proprio grazie al museo.

Il museo non è meno polimorfo del monumento: da un lato è esso stesso un monumento che sacralizza quel che sottrae alla sfera ordinaria, mettendolo al riparo da profanazioni; dall’altro, proprio perché spazio separato e sospeso, può consentire una presa di distanza che favorisca la riflessione critica. Possibilità diverse che tuttavia poggiano sulle stesse condizioni: quella di una separazione fra il dentro e il fuori, fra il museo e la piazza. Opposizione però da non intendersi rigidamente: sia perché la storia ottocentesca del museo è attraversata dalla politica ed è ideologicamente e socialmente connotata, sia perché oggi il museo pretende sempre più di essere uno spazio aperto e permeabile, un’agorà in cui affrontare le questioni dell’attualità, cosa che fa sì che possano riproporsi al suo interno le stesse difficoltà che per i monumenti contesi si pongono all’esterno, nelle piazze delle nostre città.

Ivan Bargna è docente di Antropologia estetica e di Antropologia dei media, presidente del Corso di Laurea Magistrale in Scienze Antropologiche ed Etnologiche all’Università di Milano Bicocca e direttore di AMA/Corso di Perfezionamento in Antropologia Museale e dell’Arte.

Note

[1] Serge Gruzinski, La guerra delle immagini. Da Cristoforo Colombo a Blade Runner, Sugarco, Milano, 1991 (ed. or. 1990)

[2] David Freedberg, Il potere delle immagini. Il mondo delle figure: reazioni e emozioni del pubblico, Einaudi, Torino, 1993 (ed. or. 1989) ; Alfred Gell, Art and Agency. An Anthropological Theory, Clarendon Press, London, 1998

[3] Carlo Severi, L’oggetto-persona. Rito, memoria, immagine, Einaudi, Torino, 2018 (ed. or. 2017)

[4] Alfred. Gell, “Tecnologia dell’incanto e incanto della tecnologia”, in A. Caoci, a cura di, Antropologia, estetica e arte, Angeli, Milano, 2008 (ed. or. 1992)

[5] C. Chéroux, Diplopie. L’image photographique à l’ère des médias globalisés. Essai sur le 11 septembre 2001, Le Point du Jour, Cherbourg, 2009

[6] Paul Connerton, How Societies Remember, Cambridge University Press, Cambridge, 1989

[7] Maurice Agulhon, “La ‘statuomanie’ et l’histoire”, Ethnologie française, 8, 2-3, 1978, pp. 145-172

[8] Ibidem.

[9] Ivan Bargna, “Un mondo in bianco e nero? Pratiche artistiche e biografiche di oltrepassamento della linea del colore”, in G. Tomasella, a cura, Aspetti critici e proposte visive del confronto con l’alterità tra Ottocento e Novecento, Quodlibet, Macerata, 2020

[10] Adam H. Domby, The False Cause. Fraud, Fabrication, and White Supremacy in Confederate Memory, University of Virginia Press, Charlottesville, London, 2020,  p.15

[11] Ivi p. 28

[12] Sharon MacDonald, Difficult Heritage. Negotiating the Nazi Past in Nuremberg and Beyond, Routledge, Abingdon, New York, 2009, p. 1

[13] Sharon MacDonald, Op. cit., p. 2

[14] Sabine Marschall, “The Heritage of Post-Colonial Societies”, in B. Graham, P. Howard, The Ashgate Research Companion to Heritage and Identity, Ashgare, Aldershot, 2008, pp. 347-364

[15] Lucia Allais, Designs of Destruction. The Making of Monuments in the Twentieth Century, The University of Chicago Press, Chicago, 2018, p. 6

[16] Salvatore Settis, “Resurrezioni”, in AAVV, Anche le statue muoiono. Conflitto e patrimonio tra antico e contemporaneo, Panini editore, Modena, 2018, p. 14

[17] Ivan Bargna, a cura di, Mediascapes. Pratiche dell’immagine e antropologia culturale, Meltemi, Milano, 2019; William Logan, Keir Reeves, eds., Places of Pain and Shame: Dealing with “Difficult Heritage”, Routledge, London, New York, 2009

[18] Alois Riegl, Il culto moderno dei monumenti. Il suo carattere e i suoi inizi, Abscondita, Milano, 2017 (ed. or. 1903)

[19] Ivan Bargna, “Spettacolo del dolore ed estetica della miseria. A proposito di Enjoy Poverty di Renzo Martens” in I. Bargna, a cura, Mediascapes. Pratiche dell’immagine e antropologia culturale, cit.

[20] Sabine Marschall, “Transforming the Landscape of Memory: The South African Commemorative Effort in International Perspective”, South African Historical Journal, 55, 2006, pp. 165–85